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"' A vedova allera" all'Opera di Roma. Franz Lehar riveduto in versione napoletana da Vincenzo Salemme
Programmare un' operetta nel periodo delle festività natalizie in un grande teatro d'opera non costituisce un'anomalia né di per sé dovrebbe originare alcuna polemica; molte capitali europee inseriscono in programmazioni di altissimo profilo, titoli del "genere minore" tanto in voga agli inizi del secolo in mitteleuropa e poi soppiantato, anche in conseguenza dell'avvento del disco prima e del cinema sonoro poi, dalla commedia musicale.
Il Teatro dell'Opera di Roma ha offerto al suo pubblico un'edizione decisamente sui generis de "La vedova allegra" (Die lustige Witwe) di Franz Lehar, libretto di Victor Lèon e Lèo Stein del 1905, tratto da una commedia francese di Henri Meilhac dal titolo "L'attaché d'ambassade".
La particolarità annunciata era rappresentata dall'adattamento di Vincenzo Salemme, che ha curato la regia e recitato in prima persona interpretando Njegus-Pulcinella; il regista partenopeo ha voluto
trasporre la vicenda da Parigi alla Napoli belle epoque, introducendo nel copione frizzi e lazzi alla maniera scarpettiana con numerose strizzate d'occhio a Totò e Peppino.
Per carità, lungi dal volerci ergere a paladini della purezza stilistica dell'operetta, qualche perplessità ci sentiamo, tuttavia, in obbligo di esprimerla, ritenendo questa una sede opportuna per criticare e anche, nel caso, deplorare, ma anche per stigmatizzare le forme di dissenso pregiudiziale (nell'accezione più stretta del termine) adottate da parte del pubblico ancor prima che gli interpreti avessero iniziato ad esibirsi.
Spettatori isolati ma distribuiti in ogni ordine di posto, hanno "buato" l'ingresso in scena di
Vincenzo Salemme e persino mormorato alla volta di Daniel Oren ancora nell'atto di salire sul podio e salutare la spalla dell'orchestra: inqualificabile rispondere in tal modo ad un atto di cortesia; è lecito dissentire e rumoreggiare, ma è doveroso permettere ad un artista, quanto meno, di dare inizio alla sua prestazione.
In scena dal 21 al 30 dicembre, l'edizione offerta nella stagione 2007-2008 dal teatro della capitale non può essere archiviata con un giudizio complessivo di mediocre volgarità; non mancano, è vero alcune cadute di stile davvero rovinose, ma la qualità musicale è assolutamente ragguardevole e va a merito di una direzione accorta di una grande bacchetta come quella di Oren e di alcune personalità come quella di Fiorenza Cedolins (La vedova Anna Glavari da Pozzuoli), ineccepibile nella tecnica e sorprendentemente "verace" nelle parti recitate con un credibile e sensuale accento napoletano un po' alla "Donna Sofia Lorèn", attrice a cui la cantante sembra essersi ispirata anche nella procace e godibile gestualità.
Tecnica ed estensione negli acuti sono state le doti più convincenti
evidenziate dall'ottimo Vittorio Grigolo in Camillo de Rossillon; un tenore leggero che ascolteremmo volentieri nel repertorio belcantistico e mozartiano.
Garbata, benché non fonicamente scintillante, anche la prova di Daniela Mazzuccato nel ruolo di Valencienne e adeguato alla parte da bellimbusto dal machismo baritonaleggiante Manuel Lanza nei panni di un Conte Danilo dei quartieri spagnoli. "Mi hanno offerto di allestire un'opera. Io pensavo fosse uno scherzo: non sono in grado, non so nulla di opera. Allora siamo passati all'operetta" rivela Vincenzo Salemme nell'intervista concessa a Luca Pellegrini e che viene riportata nel libretto di sala.
Confessione sincera che oltre a rivelare la spontaneità del regista denota un opinabile criterio di scritturazione, che bada ad inserire un nome sulla breccia, magari in virtù di una pellicola di successo, per poi definire quale dovrà essere il progetto artistico che a quel talvolta effimero divo sarà affidato.
L'operetta è una forma, per certi aspetti, minore di opera e risponde alla necessità di offrire anestetico svago ad una borghesia che si avvia, danzando effimeri valzer, verso le catastrofi che l'imperialismo e i totalitarismi stanno predisponendo: siamo alla vigilia della prima grande guerra e ad est la rivoluzione bolscevica è di fatto già iniziata.
L'immaginario regno di Pontevedro della bella Hanna Glawari sembra avulso dalla temperie storica così Salemme vuole che sia la Napoli belle epoque, e quella di Franz Lehar si sarebbe ben potuta intitolare, traducendo nell'idioma vesuviano "Die lustige Witwe": "'A vedova allera", foneticamente evocante più il fumo di spaghetti e pizza margherita che quello dell'artiglieria austroungarica schierata lungo il Piave.
Pizza e spaghetti che dominano il terzo atto dell'edizione salemmiana, in cui si vuole che "Chez Maxime" venga "taroccato" e "appezzottato" per organizzare una galeotta festa danzante, e che tracciano l'ipogeo stilistico delle serata a cui fa riscontro musicale il mandolino (tra l'altro ben suonato da Sonia Maurer) che sostituisce il violino solista e che aiuta a conferire alla rappresentazione un untuoso aspetto da stereotipo abusato di celebrazione di una Napoli felice ad onta delle sventure che si abbattono sul suo territorio e sul suo popolo.
Si abbattono come i sacchetti di rifiuti che regista e scenografo (Alessandro Chiti) vogliono in bella mostra (riferimento all'emergenza rifiuti in Campania) e la cui esibizione permette ai due artisti di sottoscrivere un'autocertificazione di insensibile cattivo gusto, che non avrebbe avuto pari se non fosse stato sopravanzato da quello esibito da qualche scellerato e ignorante spettatore che con voce gutturale ha urlato inviti a ritornare nella "città dell'immondizia". Qualche commento?
Peccato per un cast di rilievo in cui hanno ben dato prova Marcello Lippi (Il Barone Zeta) e i molti comprimari : Armando Gabbam, Stefano Consolini, Alessandro Battiato, Bérenguére Warluzel, Marco Santoro, Manuela Boni, Giuditta Saltarini, Massimiliano Gallo, Pierluigi Iorio e Antonio Guerriero.
Poco impegnato il coro diretto da Andrea Giorgi; da parvenue vesuviani i costumi di Giusi Giustino e tra l'approssimativo e la sgambata da avanspettacolo le coreografie di Mario Piazza.
Già: "io pensavo fosse uno scherzo", ma non lo era e non scherzavano certo Totò e Peppino e a volerli imitare ci si accorge di quanto essi siano inarrivabili; meglio non provare ma credere. 28.12.2007 Dario Ascoli le foto di scena sono di Corrado Maria Falsini Versione stampabile Oltrecultura Periodico di Via Timavo, 12 Informazione, Spettacolo e 00195 - Roma
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Mary: Mother of God She saw His birth as her son and she saw Him die as her Savior. Angels don't usually make appointments before showing up. She must have felt like she was being congratulated for winning the grand prize in a contest she ha